Parliamo di…non solo mediazione.
A partire da oggi, inizierà la pubblicazione di una serie di conversazioni avviate qualche anno fa con Dario Coriale, scrittore, giornalista, musicista e, sopratutto, caro amico e figlio di cari amici. Nello sgomberare il computer da robe ormai vecchie, spesso ingombranti o, addirittura, fastidiose, mi sono imbattuto in alcune pagine che nelle intenzioni iniziali, quando io e Dario ci eravamo rivisti dopo tanto tempo, sarebbero dovute diventare un libro scritto a quattro mani, mischiando la sua capacità narrativa con il mio quotidiano professionale. Rilette a distanza di anni, credo che quelle riflessioni abbiano ancora una qualche attualità. Più o meno come si fa quando si sgombera la cantina e ci si imbatte in qualche oggetto dimenticato e impolverato ma che sembra ancora utilizzabile, ho così deciso di dare una sistemata, necessaria più che altro per il trascorrere del tempo, laddove mi è sembrato che ce ne fosse bisogno e spero di fare cosa utile nel proporre il materiale man mano che il restiling procede. La prima riflessione si sofferma sulle caratteristiche generali della mediazione familiare. Nella prossima uscita si parlerà di affido congiunto e affido condiviso. Saranno graditi i contributi di quanti avranno la bontà e la voglia di arricchire la discussione. Infine ringrazio Dario per il tempo, la pazienza e la passione con cui si era dedicato anche a questo tentativo rimasto in sospeso; ma chissà che prima o poi…
Qual è l’obiettivo dichiarato del mediatore?
Non so se ci possa essere uno o più obiettivi dichiarati di un mediatore (ovviamente il servizio ha dei paletti e ha una sua definizione precisa che non gli permette essere onnivoro). Forse sarebbe più corretto dire che gli obiettivi sono quelli che la coppia si dà. E all’interno della coppia ci sono ovviamente delle divergenze, perché non sempre l’obiettivo del papà coincide con quello della mamma.
Parliamo dell’utenza.
Il termine “utenza”, nel corso degli anni e soprattutto nei servizi sociali, ha assunto un’accezione spesso negativa, visto che per “utente” spesso si intende “il poveruomo che ha bisogno di assistenza” (i giovani direbbero “lo sfigato”). Io, invece, vorrei andare oltre questa accezione negativa e nobilitare il termine, recuperando la sua etimologia. “Utente” deriva dal latino “utor” cioè “io uso”; viene da sé che l’utente è colui che usa un servizio, quindi c’è una situazione di sostanziale parità tra chi eroga il servizio e chi ne fruisce.
Sostanzialmente l’utente deve essere visto come un soggetto attivo che decide di fruire di un servizio.
Esattamente. E non si tratta di una puntualizzazione di tipo puramente terminologico. Ecco, il nostro utente-tipo è il papà o la mamma che volontariamente decidono di accedere al servizio o perché stanno decidendo di separarsi o perché sono già separati da più o meno tempo (e poi ritorneremo sulle differenze tra i vari percorsi tramite i quali si arriva alla separazione).
Entro quanto si può accedere al servizio di mediazione familiare?
Non c’è un limite temporale, tanto è vero che si può accedere al servizio prima e dopo il divorzio o anche nel caso siano conviventi ma non ancora separati. Anche se c’è soltanto una separazione di fatto non legalizzata. Per esempio, al servizio accedono tantissime coppie di fatto, cioè persone che non hanno mai legalizzato la loro unione ma che hanno dei figli. E qui siamo di fronte a un passaggio molto importante: quando madri e padri si separano rimangono comunque genitori, senza bisogno di ulteriori aggettivi o categorie includenti/escludenti. L’unica discriminante, dunque, per avviare un percorso di mediazione familiare è la presenza dei figli minori.
Il vostro utente è quindi il genitore, aldilà dei rapporti più o meno formali e più o meno legittimi che sottendono il loro rapporto di unione?
Esatto. Noi lavoriamo sulla “genitorialità”. Il nostro utente non è il padre, o la madre legittimamente riconosciuti, ma semplicemente il genitore consapevole del proprio “Diritto di cittadinanza”, concetto espresso da Pierpaolo Donati in più circostanze: le persone (nel nostro caso i genitori) sono sufficientemente adulte e in grado di decidere cos’è meglio per sé e quindi di fruirne. E’ per questo che l’accesso al servizio di mediazione familiare è volontario. Ma per noi è assolutamente prioritario garantire il protagonismo dei genitori, il che significa, banalmente, che loro entrano in un certo posto e, aldilà di come ci sono entrati, magari inviatici dal tribunale, sono liberi di abbandonare il percorso in qualunque momento, senza temere di essere penalizzati o colpevolizzati.
Può succedere, infatti, che il giudice, in occasione dell’udienza per la separazione prescriva alla coppia di rivolgersi al servizio di mediazione o ad un mediatore. La prescrizione è coattiva, quindi il genitore non può sottrarsi.
Il lavoro che noi facciamo fin dal primissimo incontro è di dire questi genitori: voi qui ci siete venuti perché costretti, ma….
Ma qui non c’è un po’ un controsenso con quello che si diceva prima?
Esatto. Ma è qui che interviene il lavoro del mediatore, subito, in prima battuta, perché quella volontarietà di cui si parlava è fortemente messa in crisi. Quindi, in questi casi, il mediatore ha un compito in più, ed è quello di chiarire con i genitori che, aldilà del fatto che siano arrivati dal mediatore a seguito della prescrizione del giudice, su direttive dell’assistente sociale, dietro suggerimento del parroco, su consiglio dell’amico o della vicina di casa che ha già usufruito del servizio, essi rimangano lì e continuino a presentarsi agli incontri soltanto se sono convinti di portarsi a casa qualcosa di utile. Cioè, noi non possiamo e non vogliamo trattenerli contro la loro volontà.
Quindi, nel momento in cui il giudice prescrive, i genitori sono costretti ad andare almeno ad un incontro scegliendo poi di non presentarsi agli altri?
Dunque, qui introduciamo un’altra area problematica che deve essere però indagata in modo più approfondito. Si tratta del vuoto legislativo che ormai ha creato una vera e propria zona franca che permette di fare un po’ quello che si vuole. Sostanzialmente, non essendoci nel nostro Paese una legge sulla mediazione familiare, tutto dipende un po’ dalla conoscenza che i tribunali hanno del servizio, dalla sensibilità dei giudici, e da tutta un’altra serie di variabili. Per cui ci troviamo con dei genitori accompagnati da un decreto del giudice che li obbliga a fruire del servizio di mediazione e, in alcuni casi, obbliga anche il mediatore a fornirgli poi una relazione sugli incontri. Così salta la volontarietà dei genitori, il principio di riservatezza del mediatore, l’imparzialità del servizio: salta, in pratica, l’essenza stessa del servizio.
Ma non è cambiato qualcosa con la legge 54 del 2006?
La legge 54 interviene per introdurre il cosiddetto “Affido condiviso” che, accogliendo l’idea di chi l’ha proposta e ha meritoriamente lottato per modificare lo status quo, introduce una grossa novità: in caso di separazione dei genitori, i figli hanno diritto a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori e con le figure parentali di maggior rilievo.
Detta così sembra una buona cosa.
Certo che lo è! In molti casi, però, rischia non solo di rimanere un principio puramente teorico, seppure sacrosanto e irrinunciabile, ma può diventare uno strumento molto pericoloso capace di inasprire il conflitto, invece che ridurlo.
Spiegati meglio.
Prima della 54 l’articolo 155 del codice civile prevedeva che, in caso di separazione, il giudice si pronunciasse sull’opportunità dell’affidamento dei figli all’uno o all’altro genitore, valutando in alternativa anche la possibilità di un “affido congiunto”. C’era anche la possibilità di affidamento a terzi, nel caso di disgrazie o di inadeguatezza di entrambi i genitori.
Direi che per oggi può bastare; che ne di dici di approfondire l’argomento in un altro momento?
Volentieri. Potremmo provare a capire se vi siano differenze tra quello che era l’affido congiunto e l’attuale affido condiviso.